Clausola arbitrale soppressa – cessazione amministratori – competenza
Clausola arbitrale soppressa – cessazione amministratori – competenza Rif. Cassazione Civile, sez. VI, ord., 2 marzo 2023, n. 6221 Il tema, approdato alla Suprema Corte, con ricorso per regolamento di competenza attiene alla validità (o meno) di una clausola compromissoria contenuta in uno statuto sociale e poi soppressa per effetto di una delibera intervenuta dopo la cessazione dell’amministratore dalla propria carica. La lite tra la società e l’ex amministratore è devoluta al Tribunale o al Collegio Arbitrale ? Il Tribunale di Bologna ha disatteso l’eccezione di incompetenza sollevata dall’ex amministratore, osservando come dovesse trovare applicazione l’art. 5 c.p.c., in forza del quale, ai fini della determinazione della competenza, si deve aver riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della domanda.Ma la soppressione della predetta clausola è opponibile all’ex amministratore dopo la sua intervenuta cessazione dalla carica ?La Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, innanzitutto conferma il principio per cui, la clausola compromissoria non è un patto accessorio del contratto (ndr statuto sociale) nel quale è inserita ed ha una propria individualità ed autonomia, nettamente distinte da quella del contratto cui accede. Pertanto rientrano nella sfera di operatività di detta clausola anche le controversie che insorgono dopo la cessazione del contratto, quando siano dipendenti da fatti pregressi (cfr. Cass. n.8028/1992). In tal senso, la cessazione del rapporto che lega l’amministratore alla società non è idonea a determinare l’inapplicabilità, alle controversie relative a fatti insorti in costanza di quel rapporto, della clausola compromissoria che era deputata a regolare proprio i rapporti tra la società e il suo organo amministrativo. La Corte afferma, infatti, che la vincolatività della clausola compromissoria rispetto agli amministratori, poggia sull’accettazione dell’incarico da parte dei medesimi e trae origine da un atto di volontà a contenuto negoziale. Con tale accettazione essi manifestano implicitamente l’intendimento di compromettere in arbitri le controversie che li riguardano, ove l’atto costitutivo contenga una clausola compromissoria che ricomprenda le controversie in questione. Pertanto, su di un piano generale, una modifica dell’atto costitutivo nel senso dell’introduzione o della soppressione della clausola compromissoria non è opponibile al soggetto (socio, amministratore, liquidatore o sindaco) che non vi abbia prestato adesione. In secondo luogo, proprio la disciplina contemplata per le modifiche dell’atto costitutivo nei confronti del socio chiarisce che l’inopponibilità di tali modifiche a tale soggetto si attua attraverso il recesso che – se operato – rende inopponibile il mutamento del contratto sociale cui il socio non intende aderire. A maggior ragione – afferma la Corte – tale modifica che si attui dopo che il recesso è stato esercitato non avrà motivo di operare e, per una elementare esigenza di coerenza del sistema, deve ritenersi che analoga modifica non possa operare nei confronti dell’amministratore che sia cessato dall’incarico. Il fondamento pattizio della competenza arbitrale ammette, conclude la Corte, che l’ex amministratore possa aderire alla modifica relativa alla competenza arbitrale che sia intervenuta dopo la cessazione dalla carica. Ma ove, a seguito del venir meno del rapporto organico tra l’amministratore e la società, non sia concretamente intervenuta tra le parti alcuna pattuizione volta a derogare alla competenza arbitrale, la clausola compromissoria continua ad essere l’unica fonte regolatrice della competenza relativa alle controversie insorte tra i predetti soggetti. © Avv. Luca Campana | Benacus Firm
Clausola Simul stabunt simul cadent – art. 2386 cc
Clausola «Simul stabunt simul cadent» – art. 2386 c.c. Il brocardo latino «insieme staranno insieme cadranno», in diritto, indica i casi per i quali il venir meno di una situazione ha, quale conseguenza, la fine contemporanea di un’altra circostanza. In ambito societario, l’art. 2386, 4° comma, c.c. sancisce la piena legittimità di una clausola dello statuto sociale che preveda la cessazione automatica dell’intero consiglio di amministrazione, a seguito della cessazione di taluni amministratori. La clausola è dettata per mantenere costanti, a livello di organo gestorio, gli equilibri interni originariamente voluti e cristallizzati dai soci e dovrebbe essere uno stimolo per la coesione dell’organo gestorio. Infatti, ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno/alcuni degli altri determinano la decadenza dell’intero consiglio e, nel contempo, può contribuire a quella decadenza, quando in disaccordo con gli altri (cfr. Trib. Milano, 28.07.2010 e Trib. Milano 18.04.2016). L’operatività automatica della decadenza del consiglio d’amministrazione non implica, tuttavia, una valutazione dei motivi delle dimissioni presentate da ciascun componente le quali costituiscono atto ampiamente discrezionale (cfr. Trib. Milano, 13.03.2015). Invero l’art. 2385, comma 1, c.c., assicura a ciascun amministratore la libertà di recesso che non richiede la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo per la rinuncia all’incarico. Tuttavia la clausola in questione può prestarsi ad un uso strumentale e abusivo, ogni qual volta le dimissioni di uno o più amministratori, siano dettate unicamente allo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale di risarcimento del danno) che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica, ai sensi dell’art. 2383, comma 3 c.c. Perciò la giurisprudenza (in primis il Tribunale di Milano) ha inteso reprimere siffatti comportamenti, riconoscendo comunque agli amministratori non dimissionari decaduti il diritto al risarcimento del danno. Ciò ove sia dimostrato che le dimissioni che hanno determinato l’effetto decadenziale sono state date abusivamente – cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica – o strumentalmente – cioè per eludere l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca senza giusta causa. Si badi. La decadenza non costituisce un’ipotesi di revoca dell’amministratore per giusta causa posto che la cessazione dall’incarico consegue, automaticamente e semplicemente, alla cessazione di uno o più membri del consiglio. Infatti, con l’accettazione dell’incarico, i membri del consiglio di amministrazione hanno aderito implicitamente a siffatta clausola dello statuto ed hanno, quindi, accettato l’eventualità di una propria cessazione anticipata dall’ufficio, senza alcun diritto al risarcimento. L’effetto legittimo e lecito della clausola, tuttavia, incontra un limite: ogni condotta debba essere esaminata alla luce del generale principio di buona fede. Inoltre la disposizione di cui all’art. 2383 c.c. tende a garantire al singolo amministratore una certa stabilità dell’incarico ed una giusta retribuzione di un mandato che si assume oneroso della quale può essere legittimamente privato solo nel caso in cui la revoca sia supportata dalla giusta causa. Si discute, quindi, solo indirettamente della sussistenza o meno di una giusta causa di revoca degli amministratori non dimissionari, ed invece direttamente dell’abusività (o meno) della rinuncia dei dimissionari. È chiaro che, nei fatti, i due aspetti sono collegati tra loro ma il collegamento non è del tutto automatico, ben potendo esistere casi in cui legittimamente un amministratore in buona fede rinuncia alla carica, senza che sussista in capo agli altri una giusta causa di revoca. In tal caso, questi ultimi non hanno comunque diritto al risarcimento del danno, poiché la clausola statutaria configura intrinsecamente il rapporto società-amministratore (cfr. Trib. Milano, 18.06.2014). L’onere della prova in ordine alla abusività della condotta altrui ricade sull’amministratore decaduto ma non deve incentrarsi sull’assenza di situazioni integranti una giusta causa di revoca. Essa deve vertere sulla esclusiva finalizzazione della clausola alla propria estromissione dall’organo gestorio per il conseguimento di interessi extra-sociali o di un gruppo della compagine sociale e, quindi, l’ottenimento solo in via indiretta del risultato di una revoca in assenza di giusta causa (cfr. Trib. Milano, 05/02/2019; Trib. 24/04/2020; Trib. Milano, 09/12/2020; Trib. Torino, 25/07/2022 e Trib. Napoli, 08/02/2023). © Avv. Luca Campana | Benacus Firm