Recesso del socio di SNC – Responsabilità
Recesso del socio di SNC – Responsabilità Recesso del socio di SNC – Responsabilità – art.2290 – Rif. Cassazione Civile, sez. III, 23 ottobre 2023, n.29306 È notorio il fatto che, nelle società di persone, ove un soggetto cessi di essere socio,lo stesso continua a rispondere delle obbligazioni sociali sorte anteriormente allo scioglimento (ndr, recesso, cessione della partecipazione etc) del rapporto sociale. Per converso il socio uscente non risponde delle obbligazioni sorte successivamente allo scioglimento del rapporto sociale, a condizione che l’avvenuto scioglimento del rapporto sociale sia opponibile ai creditori sociali. L’art. 2290 c.c. statuisce, infatti, quanto segue: Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento. Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato. Tralascio il commento sul secondo comma dell’articolo in questione (ndr, usualmente il mezzo idoneo è la pubblicità nel Registro Imprese) e mi soffermo sul momento temporale in cui sorge l’obbligazione sociale. La locuzione «fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento» ha dato origine ad alcuni orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Il momento temporale (in cui rileva la composizione della compagine sociale) è la data nella quale la società stipula il negozio e contrae l’obbligazione ?In prima battuta sembrerebbe la tesi più piana: pertanto, se a tale data non è stato pubblicato nel Registro Imprese il recesso del socio, l’obbligazione non può essere opponibile al terzo, non rilevando il momento successivo in cui il creditore intenti azione giudiziaria per l’inadempimento (cfr. Cass. n.24490/2013). Vengono a mente le obbligazioni sociali che la società ha “in corso” al momento dello scioglimento del rapporto sociale, in quanto conseguenza necessaria ed inevitabile dei rapporti giuridici preesistenti. A titolo esemplificativo, vi rientra il risarcimento di danni verificatesi prima del recesso del socio, le obbligazioni derivanti da contratti di durata (ad esempio gli importi dovuti dalla società per il pagamento delle rate di un mutuo contratto prima del recesso seppur con scadenza successiva), le obbligazioni tributarie esistenti al giorno dello scioglimento del rapporto sociale (cfr. Cass. n.17154/2017). La tesi non è del tutto appagante. Se è vero che le obbligazioni di una società di persone debbono ritenersi temporalmente correlate alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, sono escluse quelle contratte oltre la data dello scioglimento del rapporto sociale, non dovrebbe automaticamente bastare la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta prima dello scioglimento del rapporto sociale ove la stessa mantenga gli effetti oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società. Così si è espressa la Suprema Corte nella sentenza in commento relativamente ad un contratto di locazione stipulato dalla società. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. la Corte afferma, in primo luogo, il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali. La Corte ha affermato che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento in quanto l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e sia stata inadempiuta. La Corte conclude, affermando che se è vero che le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale originario, la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale. La sentenza in commento, a mio avviso, individua esattamente la questione (cfr. anche Cass. n.17969/2021 che – in tema di caparra confirmatoria – ha affermato l’irrilevanza della conclusione del contratto, dovendo verificare esclusivamente il momento in cui è sorta l’obbligazione restitutoria). Il momento dell’insorgenza e/o esigibilità dell’obbligazione, correlato all’inadempimento della società, è un tema complesso poiché impone di analizzare le singole fattispecie (si pensi al tema del “momento impositivo” nelle obbligazioni tributarie). © Avv. Luca Campana | Benacus Firm
Clausola compromissoria – collegio arbitrale – potestas iudicandi
Clausola compromissoria e potestas iudicandi del collegio arbitrale Segnalo l’interessante ordinanza interlocutoria del 16 marzo 2022 n.8591 con cui la Seconda sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per valutare l’opportunità di rimettere alle Sezioni Unite la seguente questione: Quale sia la sorte della clausola compromissoria inserita in un contratto di appalto (o di subappalto) e della potestas iudicandi del collegio arbitrale, qualora tale collegio, ignorando l’intervenuta apertura della procedura concorsuale, pronunci il lodo durante il decorso del termine di 60 giorni che la legge concede al curatore in caso di fallimento ex art. 81 L.F.In altri termini, la questione attiene alla validità (o meno) di un lodo arbitrale emesso, sulla scorta di una clausola arbitrale contenuta in un contratto di appalto sciolto per la mancata dichiarazione di subentro da parte della procedura concorsuale. La peculiarità della fattispecie discende dalla circostanza che la procedura concorsuale è intervenuta proprio in pendenza del deposito del lodo e ad istruttoria ormai chiusa senza che nessuna delle parti avesse comunicato agli arbitri l’evento. Il provvedimento è, quindi, stato emesso dal collegio arbitrale ignaro dell’intervenuta procedura ma nelle more dello spatium deliberandi di 60 giorni spettante ex lege ai fini dell’eventuale subentro nel rapporto. Secondo la tesi del ricorrente, dal venir meno del contratto di appalto discenderebbe automaticamente l’inefficacia della clausola arbitrale, privando gli arbitri del potere di decidere la controversia a loro devoluta e la conseguente violazione – in punto di diritto – operata dalla Corte di Appello avuto riguardo agli artt. 829, primo comma, n. 4 e 9, e terzo comma, c.p.c. e agli artt. 201, 72, 81 e 83 L.F. La Corte infatti aveva ritenuto valida la potestas degli arbitri e il lodo arbitrale. La sopravvenuta inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione di arbitrato contenuta in un contratto d’appalto non è tema di poco conto. Si tratta, in sintesi, di stabilire quale sia la sorte della clausola compromissoria inserita in un contratto di appalto (o di subappalto) e la permanenza della potestas iudicandi del collegio arbitrale, qualora il collegio arbitrale, ignorando l’intervenuta apertura della procedura concorsuale, pronunci il lodo durante il decorso del termine di 60 giorni che la legge fallimentare concede agli organi della procedura concorsuale ex art. 81 L.F. per decidere di subentrare (o meno) nel rapporto. Come è noto, in tema d’appalto, in caso di fallimento dell’appaltatore, l’art.81, primo comma, L.F. stabilisce quanto segue: «Il contratto di appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti, se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di giorni sessanta dalla dichiarazione di fallimento ed offrendo idonee garanzie.» Inoltre l’art. 83 bis L.F. stabilisce prevede che: «Se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito.» La Corte ha dapprima richiamato il proprio consolidato orientamento secondo il quale lo scioglimento del contratto di appalto in conseguenza del fallimento dell’appaltatore, a norma dell’art. 81 L.F., costituisce un effetto legale ex nunc della sentenza dichiarativa. Ma esso decorre dalla sentenza dichiarativa o dalla decorrenza del termine per la (mancata) comunicazione della dichiarazione di subentro ? Occorre quindi stabilire – si interroga la Corte – quale sia la natura della fase dedicata allo spatium deliberandi del curatore (o del commissario liquidatore) e, soprattutto, quale sia la sorte del lodo intervenuto in questa fase. La Corte richiama i due orientamenti sul punto. Il primo afferma che, durante lo spatium deliberandi riservato al curatore, si verificherebbe una fase di sospensione degli effetti del contratto, con salvezza, comunque, della potestas iudicandi. Il momento della risoluzione del contratto coinciderebbe con la scadenza del termine di 60 giorni concesso dall’art. 81 L.F. al curatore per deliberare l’eventuale subentro nel contratto, senza che la dichiarazione di subentro sia intervenuta. Pertanto lo scioglimento del contratto di appalto, non sarebbe una conseguenza automatica del fallimento di uno dei contraenti ma sarebbe l’effetto della scelta del curatore, che nel termine di legge, non ha dichiarato di voler subentrare nel rapporto. Il secondo orientamento afferma, invece, che durante lo spatium deliberandi riservato al curatore, si verificherebbe comunque l’inefficacia di tutte le clausole contrattuali, compresa la clausola compromissoria, in ragione dell’automatico scioglimento del contratto dovuto agli effetti ex nunc della sentenza dichiarativa di fallimento dell’appaltatore. Le conseguenze della scelta tra l’una e l’altra opzione (rileva la Corte) sono rilevanti: «nel primo caso, infatti, la sorte della operatività della clausola arbitrale sarebbe dipendente dal potere di subentro riconosciuto al curatore (o commissario liquidatore) e, quindi, il lodo intervenuto nelle more dello spatium deliberandi riconosciuto al curatore sarebbe valido (lo scioglimento del contratto ex art.81 L.F. sarebbe, dunque, l’effetto eventuale di un precisa scelta dell’organo fallimentare); nel secondo caso, invece, il giudizio arbitrale sarebbe comunque improseguibile e il lodo eventualmente pronunciato sarebbe affetto da nullità per carenza di potestas iudicandi.» La Corte, infine, evidenzia l’ulteriore questione di diritto da risolvere che è rappresentata dall’esatta portata dell’art. 72 L.F. In primo luogo la Corte si interroga se la norma (che sancisce l’inefficacia delle clausole negoziali che fanno dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento) sia applicabile ai soli contratti non ancora eseguiti da entrambi i contraenti oppure anche ai contratti non più in esecuzione. La Corte richiama l’autorevole pronuncia delle proprie Sezioni Unite che ha affermato il principio secondo il quale in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria. Infatti l’effetto attributivo della cognizione agli arbitri è paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento, dell’avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l’accertamento di un credito verso l’impresa sottoposta alla procedura concorsuale, allo speciale, ed inderogabile, procedimento di verificazione dello stato passivo (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 06/06/2003 n.9070; nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. Un., Ord. 21/07/2015, n.15200 e Cass. Civ., Sez. I, 04/09/2004, n.17891). La ratio comune risiede – prosegue la Corte – nell’esigenza di concentrare davanti ad un unico