Clausola Simul stabunt simul cadent – art. 2386 cc
Clausola «Simul stabunt simul cadent» – art. 2386 c.c. Il brocardo latino «insieme staranno insieme cadranno», in diritto, indica i casi per i quali il venir meno di una situazione ha, quale conseguenza, la fine contemporanea di un’altra circostanza. In ambito societario, l’art. 2386, 4° comma, c.c. sancisce la piena legittimità di una clausola dello statuto sociale che preveda la cessazione automatica dell’intero consiglio di amministrazione, a seguito della cessazione di taluni amministratori. La clausola è dettata per mantenere costanti, a livello di organo gestorio, gli equilibri interni originariamente voluti e cristallizzati dai soci e dovrebbe essere uno stimolo per la coesione dell’organo gestorio. Infatti, ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno/alcuni degli altri determinano la decadenza dell’intero consiglio e, nel contempo, può contribuire a quella decadenza, quando in disaccordo con gli altri (cfr. Trib. Milano, 28.07.2010 e Trib. Milano 18.04.2016). L’operatività automatica della decadenza del consiglio d’amministrazione non implica, tuttavia, una valutazione dei motivi delle dimissioni presentate da ciascun componente le quali costituiscono atto ampiamente discrezionale (cfr. Trib. Milano, 13.03.2015). Invero l’art. 2385, comma 1, c.c., assicura a ciascun amministratore la libertà di recesso che non richiede la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo per la rinuncia all’incarico. Tuttavia la clausola in questione può prestarsi ad un uso strumentale e abusivo, ogni qual volta le dimissioni di uno o più amministratori, siano dettate unicamente allo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa, eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale di risarcimento del danno) che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica, ai sensi dell’art. 2383, comma 3 c.c. Perciò la giurisprudenza (in primis il Tribunale di Milano) ha inteso reprimere siffatti comportamenti, riconoscendo comunque agli amministratori non dimissionari decaduti il diritto al risarcimento del danno. Ciò ove sia dimostrato che le dimissioni che hanno determinato l’effetto decadenziale sono state date abusivamente – cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica – o strumentalmente – cioè per eludere l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca senza giusta causa. Si badi. La decadenza non costituisce un’ipotesi di revoca dell’amministratore per giusta causa posto che la cessazione dall’incarico consegue, automaticamente e semplicemente, alla cessazione di uno o più membri del consiglio. Infatti, con l’accettazione dell’incarico, i membri del consiglio di amministrazione hanno aderito implicitamente a siffatta clausola dello statuto ed hanno, quindi, accettato l’eventualità di una propria cessazione anticipata dall’ufficio, senza alcun diritto al risarcimento. L’effetto legittimo e lecito della clausola, tuttavia, incontra un limite: ogni condotta debba essere esaminata alla luce del generale principio di buona fede. Inoltre la disposizione di cui all’art. 2383 c.c. tende a garantire al singolo amministratore una certa stabilità dell’incarico ed una giusta retribuzione di un mandato che si assume oneroso della quale può essere legittimamente privato solo nel caso in cui la revoca sia supportata dalla giusta causa. Si discute, quindi, solo indirettamente della sussistenza o meno di una giusta causa di revoca degli amministratori non dimissionari, ed invece direttamente dell’abusività (o meno) della rinuncia dei dimissionari. È chiaro che, nei fatti, i due aspetti sono collegati tra loro ma il collegamento non è del tutto automatico, ben potendo esistere casi in cui legittimamente un amministratore in buona fede rinuncia alla carica, senza che sussista in capo agli altri una giusta causa di revoca. In tal caso, questi ultimi non hanno comunque diritto al risarcimento del danno, poiché la clausola statutaria configura intrinsecamente il rapporto società-amministratore (cfr. Trib. Milano, 18.06.2014). L’onere della prova in ordine alla abusività della condotta altrui ricade sull’amministratore decaduto ma non deve incentrarsi sull’assenza di situazioni integranti una giusta causa di revoca. Essa deve vertere sulla esclusiva finalizzazione della clausola alla propria estromissione dall’organo gestorio per il conseguimento di interessi extra-sociali o di un gruppo della compagine sociale e, quindi, l’ottenimento solo in via indiretta del risultato di una revoca in assenza di giusta causa (cfr. Trib. Milano, 05/02/2019; Trib. 24/04/2020; Trib. Milano, 09/12/2020; Trib. Torino, 25/07/2022 e Trib. Napoli, 08/02/2023). © Avv. Luca Campana | Benacus Firm
Recesso del socio di SNC – Responsabilità
Recesso del socio di SNC – Responsabilità Recesso del socio di SNC – Responsabilità – art.2290 – Rif. Cassazione Civile, sez. III, 23 ottobre 2023, n.29306 È notorio il fatto che, nelle società di persone, ove un soggetto cessi di essere socio,lo stesso continua a rispondere delle obbligazioni sociali sorte anteriormente allo scioglimento (ndr, recesso, cessione della partecipazione etc) del rapporto sociale. Per converso il socio uscente non risponde delle obbligazioni sorte successivamente allo scioglimento del rapporto sociale, a condizione che l’avvenuto scioglimento del rapporto sociale sia opponibile ai creditori sociali. L’art. 2290 c.c. statuisce, infatti, quanto segue: Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento. Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato. Tralascio il commento sul secondo comma dell’articolo in questione (ndr, usualmente il mezzo idoneo è la pubblicità nel Registro Imprese) e mi soffermo sul momento temporale in cui sorge l’obbligazione sociale. La locuzione «fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento» ha dato origine ad alcuni orientamenti giurisprudenziali contrastanti. Il momento temporale (in cui rileva la composizione della compagine sociale) è la data nella quale la società stipula il negozio e contrae l’obbligazione ?In prima battuta sembrerebbe la tesi più piana: pertanto, se a tale data non è stato pubblicato nel Registro Imprese il recesso del socio, l’obbligazione non può essere opponibile al terzo, non rilevando il momento successivo in cui il creditore intenti azione giudiziaria per l’inadempimento (cfr. Cass. n.24490/2013). Vengono a mente le obbligazioni sociali che la società ha “in corso” al momento dello scioglimento del rapporto sociale, in quanto conseguenza necessaria ed inevitabile dei rapporti giuridici preesistenti. A titolo esemplificativo, vi rientra il risarcimento di danni verificatesi prima del recesso del socio, le obbligazioni derivanti da contratti di durata (ad esempio gli importi dovuti dalla società per il pagamento delle rate di un mutuo contratto prima del recesso seppur con scadenza successiva), le obbligazioni tributarie esistenti al giorno dello scioglimento del rapporto sociale (cfr. Cass. n.17154/2017). La tesi non è del tutto appagante. Se è vero che le obbligazioni di una società di persone debbono ritenersi temporalmente correlate alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, sono escluse quelle contratte oltre la data dello scioglimento del rapporto sociale, non dovrebbe automaticamente bastare la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta prima dello scioglimento del rapporto sociale ove la stessa mantenga gli effetti oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società. Così si è espressa la Suprema Corte nella sentenza in commento relativamente ad un contratto di locazione stipulato dalla società. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. la Corte afferma, in primo luogo, il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali. La Corte ha affermato che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento in quanto l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e sia stata inadempiuta. La Corte conclude, affermando che se è vero che le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale originario, la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale. La sentenza in commento, a mio avviso, individua esattamente la questione (cfr. anche Cass. n.17969/2021 che – in tema di caparra confirmatoria – ha affermato l’irrilevanza della conclusione del contratto, dovendo verificare esclusivamente il momento in cui è sorta l’obbligazione restitutoria). Il momento dell’insorgenza e/o esigibilità dell’obbligazione, correlato all’inadempimento della società, è un tema complesso poiché impone di analizzare le singole fattispecie (si pensi al tema del “momento impositivo” nelle obbligazioni tributarie). © Avv. Luca Campana | Benacus Firm